Le donne con disabilità sono discriminate sia in quanto donne, sia in quanto persone con disabilità e lo sono maggiormente se appartengono a minoranze etniche, linguistiche o religiose. La violenza nei loro confronti attinge da un pregiudizio di genere e cioè dalla mancanza di parità di uguaglianza tra uomo e donna, cui si aggiunge la considerazione stereotipata relativa al corpo della donna disabile, percepito in genere come “asessuato”, “anormale” o “malato”.
Ne consegue la negazione di titolarità di diritti, sia come donne, sia come madri che amiche o professioniste. Questa doppia discriminazione è causa di varie forme di violenza – alcune esplicite, altre subdole – difficili da identificare e combattere, perché spesso si verificano in ambienti familiari o di cura e si manifestano con modalità non rientranti nella generale e consueta categoria di violenza. Ad esempio, il diritto alla salute per le donne con disabilità è condizionato dall’accessibilità dei servizi sanitari e la discriminazione si può manifestare – per citare un caso – quando, richiedendo prestazioni come la mammografia e il pap test, si trovano strumenti diagnostici non adatti per chi ha problemi di mobilità o di equilibrio, cosicché la difficoltà nel mantenere la posizione adatta o lo spostamento sul lettino ginecologico – uniti alla scarsa professionalità del personale sanitario – spesso rendono questi screening umilianti e imprecisi, con l’unico effetto di diventare un deterrente alla prevenzione e alla cura.
Cerchiamo di immaginare cosa succede da un punto di vista pratico se la disabilità è intellettiva. I processi sanitari subiscono una battuta di arresto e si opera alla meno peggio. In questi casi si parla di “paziente non collaborante” per il quale bisognerebbe aprire un intero doloroso capitolo. Da una ricerca dell’Alto Commissariato dell’ONU per i Diritti Umani, emergono altri aspetti allarmanti relativi alla violenza nei confronti delle donne e ragazze con disabilità. In Europa un milione e 200.000 persone con disabilità vivono permanentemente in Istituti (150.000 bambini/e), senza il diritto di una partecipazione alla vita ordinaria, come invece accade agli altri Cittadini europei.
Secondo poi un rapporto del Parlamento Europeo, circa l’80% delle donne istituzionalizzate sono esposte al rischio di violenza, spesso compiuta proprio dalle persone che dovrebbero prendersi cura di loro. E ancora, in Germania uno studio commissionato dal Ministero per la Famiglia rivela che migliaia di donne istituzionalizzate – con disabilità intellettiva – hanno subito abusi sessuali (Fonte: «Der Spiegel online», 14 febbraio 2012). C’è poi un altro tipo violenza, quella cioè che si rivela nella negligenza assistenziale, nel trascurare i tempi dei bisogni primari individuali – come lavarsi, vestirsi o mangiare – nel controllare e limitare la comunicazione con l’esterno, senza ascoltare le richieste personali e restringendo, inoltre, le possibilità di incontro con familiari e amici.
In tali ambiti può anche accadere che donne anziane e/o con disabilità psicosociali vengano sottoposte – senza il loro consenso – a trattamenti inaccettabili come l’elettroshock e purtroppo, in alcuni Paesi, sopravvivono pratiche di sterilizzazioni forzate, nonostante la Convenzione ONU ribadisca il diritto per la persona con disabilità di decidere su tutti gli aspetti della propria vita, compresi i trattamenti sanitari (articolo 12). Denunciare questi abusi non è facile. Le donne con disabilità sono totalmente dipendenti da chi ha perpetrato la violenza e il timore di perdere il sostegno di cui hanno bisogno ostacola il ricorso alla giustizia. L’accesso alla giustizia non è comunque agevole, sia per una scarsa consapevolezza dei propri diritti, sia per la mancata conoscenza dei mezzi per ottenerla e laddove viene riconosciuta la capacità giuridica per avviare il procedimento, spesso si mette in dubbio la credibilità e l’attendibilità della testimonianza, come è accaduto un anno fa a Soweto, in Sudafrica, ove una ragazza con disabilità di 17 anni è stata rapita, sequestrata e violentata per giorni da un gruppo di sette ragazzi tra i 14 e i 20 anni, che hanno filmato e poi divulgato sul web le loro violenze.
La vittima aveva già subito violenze dall’età di 12 anni, ma nonostante la madre lo avesse denunciato, la ragazza non era stata creduta, a causa della sua disabilità intellettiva e delle condizioni di povertà della famiglia (Fonte: «CNN». 19 aprile 2012). Cruciale, pertanto, è dare visibilità alle multi discriminazioni subite dalle donne con disabilità, favorendo una maggiore rappresentatività dei loro diritti sia a livello politico-istituzionale che all’interno delle associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani. Ed è anche auspicabile una stretta cooperazione tra le organizzazioni delle persone con disabilità e il movimento delle donne, per richiedere agli organismi legislativi e amministrativi competenti le azioni necessarie attinenti il genere e la disabilità, garantendo l’accesso all’istruzione, alla formazione, al lavoro, alla salute e al diritto di decidere su sessualità, gravidanza e adozione.
La Convenzione dell’ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità all’articolo 6 (Donne con disabilità) una particolare attenzione alle donne con disabilità, riconoscendole come persone esposte a rischio di violenza, maltrattamenti e abusi e raccomandando agli Stati di adottare misure amministrative e legislative per identificare e denunciare gli atti di violenza (articolo 16), con la garanzia dell’accesso a servizi di protezione sociale (articolo 28).
Daniela Mignogna. Fonte: avantionline.it
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