Uno studio conferma che, a parità di mansioni, sono pagati di meno rispetto ai colleghi. Ma buone pratiche si stanno diffondendo. Il ruolo del disability manager per rimuovere gli ostacoli che impediscono di esprimersi secondo le proprie capacità
I datori di lavoro li considerano «meno produttivi» e, per questo, li penalizzano pagandoli di meno rispetto ai colleghi che svolgono le stesse mansioni. Ci sono, poi, manager che si dichiarano propensi ad assumere un lavoratore con disabilità, ma di fatto non lo fanno. La conferma che esistono ancora pregiudizi nelle strutture apicali delle aziende nei confronti di lavoratori con disabilità arriva da uno studio che ha messo a confronto indagini sull’inclusione lavorativa condotte a livello internazionale, presentato nel corso di un convegno “Disability management. Buone pratiche e prospettive future in Italia”, svoltosi di recente a Milano su iniziativa di “Best regards IBM Italia” e “Associazione pianeta persona”, e con il patrocinio, tra gli altri, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Scarso coordinamento
Ma quali sono i principali aspetti critici che ostacolano l’inserimento delle persone con disabilità nei contesti lavorativi? E quali, invece, le migliori prassi che lo favoriscono? «I contributi scientifici esaminati si riferiscono principalmente alle esperienze delle grandi aziende - premette l’autrice dello studio, Silvia Angeloni professore associato all’Università del Molise -. I risultati evidenziano che uno degli errori organizzativi più ricorrenti nell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità è lo scarso coordinamento e la mancanza di dialogo tra le varie figure (all’interno o all’esterno all’azienda) deputate a garantire il buon inserimento lavorativo».
L’inclusione da agevolare
Agevolare un’inclusione “di qualità” della persona con disabilità in azienda è uno dei compiti del disability manager, figura professionale ancora poco diffusa nel nostro Paese. «Secondo la letteratura, una delle principali sfide di coloro che si occupano di disability management consiste nella costruzione di un ambiente lavorativo psicologicamente rassicurante e socialmente collaborativo – sottolinea Angeloni – . Inoltre, al pari di quanto avviene per qualsiasi procedura di reclutamento, viene suggerito un approccio teso a identificare ciò che il lavoratore con disabilità “sa fare”. È il principio che ha ispirato il reclutamento da parte di alcune grandi aziende, operanti soprattutto nel settore dell’hi-tech, di persone con sindrome di Asperger, perché le loro “straordinarie” capacità sono considerate un punto di forza per l’azienda».
Pregiudizi da aggredire
Insomma, le persone con disabilità non impiegate semplicemente per ottemperare a un obbligo di legge, ma come risorsa, ognuna con le proprie specifiche competenze. Ma attenzione, avverte l’esperta: «Secondo alcuni studi, a volte sono gli stessi lavoratori con disabilità a non cercare forme di supporto aziendale perché temono di sembrare più vulnerabili e di essere discriminati. I pregiudizi, però, vanno “aggrediti” anche col supporto del disability manager che deve adoperarsi per assicurare a tutti parità di trattamento rimuovendo gli ostacoli che impediscono a una persona di esprimersi secondo le proprie capacità».
Buone pratiche
«Alcune grandi aziende hanno cominciato a utilizzare il disability manager perché ritengono che un buon inserimento lavorativo delle persone con disabilità sia un valore aggiunto per l’impresa - aggiunge una delle organizzatrici del convegno, Consuelo Battistelli, diversity engagement partner per IBM Italia, azienda che già nel 1914 aveva assunto persone con disabilità senza che ci fossero obblighi di legge -. La parola chiave è produttività, e l’inclusione la favorisce, anzi: una delle spinte propulsive all’innovazione è proprio la diversità. Nella mia azienda - continua Battistelli - mi occupo di differenze di genere, culturali, generazionali, con un focus sulle persone con disabilità non solo perché sono non vedente, ma anche per le mie competenze nel campo della formazione per promuovere il coinvolgimento di tutti nell’attività lavorativa, con gli altri team e i manager. Avere team eterogenei vuol dire essere più creativi, ed è dalla creatività che nascono le idee».
Tecnologia che abilita
Anche la tecnologia può essere uno strumento per favorire l’inclusione nel mondo del lavoro. «L’azienda fornisce alla persona con disabilità le tecnologie assistive, cioè gli strumenti giusti per esprimere al meglio le proprie competenze ed essere produttivi - dice la diversity engagement partner di IBM Italia -. Per esempio, nel mio caso si tratta di un computer con screen reader o uno smartphone con sintesi vocale, nel caso di un ipovedente può essere il video ingranditore, se si ha una disabilità motoria grave un mouse speciale per la carrozzina. Non ci vengono dati solo supporti tecnologici, ma testiamo anche l’accessibilità di applicazioni interne o rivolte ai clienti». L’evoluzione della tecnologia, poi, ha permesso di superare alcuni ostacoli che una persona con una disabilità motoria o sensoriale deve affrontare nella vita di tutti i giorni. «Per esempio - dice Battistelli - se viaggio in treno e non ci sono annunci vocali, grazie a una app scaricata sul cellulare o sul computer, posso sapere in che stazione mi trovo e quando scendere. E, sempre con una app, attraverso l’audio descrizione, posso vedere un film o leggere libri sul telefonino».
Maria Giovanna Faiella. Fonte: corriere.it