Derek e Christine Reid sono i genitori di Ellie, una bambina di tre anni e mezzo con una sordità profonda la cui diagnosi è stata ipotizzata dopo un test uditivo, nei primi giorni di vita di Ellie, e confermata con un esame più approfondito tre settimane più tardi. Si ritiene che oltre il 90 per cento delle persone nate con questo genere di deficit sensoriale abbia genitori con un udito normale, come nel caso dei Reid. In seguito alla diagnosi, e a fronte dell’inefficacia delle protesi acustiche per il caso di Ellie, i Reid hanno dovuto prendere in tempi relativamente stretti una decisione che si pone per tutti i genitori nella loro situazione: se sottoporre Ellie a un intervento chirurgico per impiantare una coclea artificiale, e poi pianificare un trattamento logopedico per l’apprendimento della lingua scritta e parlata; o se considerare da subito la lingua dei segni – a loro completamente sconosciuta – la lingua “naturale” destinata a Ellie; o se provare a fare entrambe le cose, seguendo un modello “bilingue”.
I Reid vivono a Braintree nel Massachusetts, una ventina di chilometri a sud di Boston. La loro storia è simile a quella di altre famiglie ed è stata raccontata dalla giornalista scientifica americana Sujata Gupta per Matter, un magazine online di scienza e tecnologia pubblicato sulla piattaforma “Medium”. In passato Gupta ha anche scritto e lavorato per riviste di settore come Nature, New Scientist e Scientific American, e per un pubblico più vasto su New Yorker e Wired.
Di cosa parla questa storia
L’articolo descrive diversi aspetti di un vasto e trasversale dibattito esistente anche in Italia: quello che riguarda il trattamento della sordità sul piano sociale e la considerazione della lingua dei segni, tenuto conto della profondità storica e della produzione artistico-culturale dei gruppi che apprendono e utilizzano questa lingua. Alcune di queste persone reputano oggi ostile e dannoso nei confronti della loro minoranza linguistica il fatto che diversi genitori udenti, ritenendo la sordità dei loro figli un deficit a tutti gli effetti, decidano in molti casi di ricorrere all’impianto cocleare e di sottrarre se stessi e i propri figli all’apprendimento della lingua dei segni, causandone – volontariamente o involontariamente – un progressivo impoverimento.
I numeri sulla sordità in Italia e negli Stati Uniti
Anche causa della complessa stratificazione del fenomeno e delle oggettive difficoltà nelle rilevazioni su larga scala, non esistono statistiche univoche e sufficientemente aggiornate sulla sordità. In Italia, secondo i dati citati più frequentemente, le persone sorde sono in un numero compreso tra 60 mila e 70 mila (perdite dell’udito più o meno gravi, in generale, interessano invece molte più persone: circa l’8-10 per cento della popolazione, in diverse fasce d’età). Negli Stati Uniti le persone con problemi di udito sono oltre 38 milioni (circa il 13 per cento della popolazione) e quelle tecnicamente sorde – non in grado di ascoltare una voce in modo comprensibile – sono almeno 550 mila. Circa 250 mila sono le persone che utilizzano la lingua dei segni.
Le cause della sordità non sono ancora del tutto chiare: esistono sordità ereditarie, pre e postnatali; sordità acquisite, a causa di malformazioni congenite, tossiche o dismetaboliche; e sordità “perinatali”, cioè subentrate alla nascita a causa di traumi, parti prematuri o altre complicazioni.
La diagnosi precoce di Ellie
Due giorni dopo la sua nascita, Ellie fu sottoposta da un tecnico del personale ospedaliero a uno screening audiologico (un’indagine per una diagnosi precoce) per rilevare eventuali deficit uditivi: pur non essendo doloroso, viene preferibilmente fatto mentre il neonato dorme, ma in questo caso la neonata era sveglia. Il tecnico inserì nel condotto uditivo esterno delle orecchie di Ellie due piccoli auricolari: emettono un suono prolungato e, perché il test sia superato, devono registrare la risposta della coclea, una delicata parte dell’orecchio interno – a forma di chiocciola – che percepisce il segnale acustico e lo traduce in impulso nervoso. Nel caso di Ellie l’apparecchio non registrò alcuna risposta.
Il tecnico aveva rassicurato i Reid sul fatto che l’assenza di risposta della coclea non significa necessariamente deficit uditivi: a volte il pianto del neonato può interferire con l’esito del test, altre volte c’è del liquido nelle orecchie che impedisce di effettuare correttamente la rilevazione. Ad ogni modo, per escludere una diagnosi di sordità, ai Reid fu suggerito di portare Ellie in clinica per un successivo controllo entro poche settimane. Non c’era particolare preoccupazione: quando Christine, trentottenne madre di Ellie, la portò al controllo successivo al Braintree Rehabilitation Center, non ritenne neppure necessario che Derek, suo marito, prendesse un permesso al lavoro per accompagnarla.
Il risultato del primo screening non ha valore diagnostico, appunto, ma segnala l’eventuale necessità di valutazioni ed esami più accurati e approfonditi. In Italia – in assenza di un protocollo sanitario condiviso a livello nazionale, e al netto dei recenti e incoraggianti progressi di un programma nazionale autonomo di screening audiologico nei reparti di neonatologia – il controllo dell’udito non sempre e non in tutte le regioni è compreso tra i controlli abitualmente effettuati sui neonati nei primi giorni e nelle prime settimane di vita. E già da diversi anni il Ministero della Salute ha indicato la necessità che la diagnosi precoce delle sordità congenite rientri stabilmente nelle buone pratiche cliniche di assistenza ai neonati.
Che cos’è la sordità profonda
Al Braintree Rehabilitation Center, dopo essere stata allattata da Christine, Ellie si addormentò e gli addetti del reparto di otorinolaringoiatria poterono esaminare approfonditamente la parte interna delle sue orecchie e monitorare l’attività cerebrale connessa agli stimoli acustici. Dopo oltre due ore di esami, l’audiologa uscì dalla stanza e rientrò con una pila piuttosto alta di opuscoli informativi, dicendo a Christine, madre di Ellie: «sua figlia ha una sordità profonda». Gli esami avevano mostrato l’incapacità di Ellie di sentire qualsiasi suono al di sotto dei 120 decibel (dB): le normali conversazioni avvengono solitamente intorno ai 60 dB. Per Ellie, in base a questi risultati, “un colpo di pistola sarebbe stato niente più che un sussurro”.
La classificazione della sordità – lieve, media, grave e profonda – è solitamente fatta sulla base dei risultati di appositi esami audiometrici che quantificano la perdita uditiva in termini di decibel: si parla di sordità profonda quando la soglia di percezione uditiva è pari o maggiore a 90 dB (valutata su una scala di frequenze da 125 a 4.000 Hertz). In pratica chi presenta sordità profonda è in grado di sentire, piuttosto lievemente, soltanto rumori talmente forti da essere percepiti da tutto il corpo attraverso le vibrazioni.
La prima cosa a cui Christine racconta di aver pensato fu che non avrebbe mai potuto portare Ellie a sentire un concerto degli Air Supply, un duo soft-rock popolare negli anni Ottanta molto amato da Christine e da sua madre, la nonna di Ellie. Su un messaggio che era riuscita a farsi firmare dai componenti del gruppo quando era al quarto mese di gravidanza, Christine aveva fatto scrivere “Terza generazione di fan degli Air Supply a bordo”.
Il quadro clinico di Ellie è quello in cui si ricorre più frequentemente a un intervento chirurgico per impiantare una coclea artificiale, un dispositivo che svolge le stesse funzioni della coclea biologica: è composto da un trasmettitore digitale, un processore di suoni e un microfono esterno posto su un supporto retroauricolare (in questo video è spiegato più estesamente come funziona). Non va confuso con le protesi acustiche, o apparecchi acustici, il cui utilizzo è indicato ed efficace soltanto nei casi di sordità meno gravi, quelli in cui l’udito è compromesso ma non funzionalmente assente.
Il dibattito sull’impianto cocleare
Decidere se ricorrere o no all’impianto cocleare non è una scelta così semplice come potrebbe sembrare, e non lo fu neppure per i Reid. La coclea artificiale, scrive Matter, non è ancora uno strumento perfetto: dopo l’impianto e dopo il necessario e paziente lavoro di “mappatura” del dispositivo, l’ascolto e la comprensione delle conversazioni quotidiane può a volte rivelarsi un’operazione comunque complicata per il paziente, soprattutto in presenza di molti rumori ambientali di sottofondo.
Inoltre, come i Reid scoprirono cercando maggiori informazioni, l’impianto cocleare avrebbe potuto – in un senso molto stretto e particolare – “escludere” Ellie da una cultura che, secondo alcuni, le spettava come una sorta di diritto di nascita: la “cultura sorda”, le cui espressioni sono prevalentemente realizzate nella lingua dei segni e in cui la mancanza dell’udito, spiega la giornalista di Matter, non è vista come una disabilità da curare ma come un’identità da apprezzare.
Tra gli udenti sono davvero in poche le persone a conoscenza della vitalità e profondità della cultura Sorda. È un mondo con le sue convenzioni sociali e le sue regole. Possiede linguaggi – le tante diverse forme di segno – ricchi e con sfumature come qualsiasi lingua parlata. E come qualsiasi cultura ha un modo proprio di tramandare la storia. Esistono compagnie teatrali dei sordi, festival del cinema dei sordi e spettacoli comici dei sordi. E non si tratta di copie delle versioni per udenti, con i segni al posto del parlato. L’esperienza condivisa della sordità, e la natura fisica del segno, rende l’arte dei sordi differente in un senso che la maggior parte degli udenti non può cogliere.
Essendo nata da genitori udenti, la gran parte delle persone con sordità profonda non apprende questa cultura in famiglia: la conosce, e in un certo senso la “costruisce”, attraverso le frequentazioni con maestri e compagni nella stessa condizione. L’impianto cocleare rende questa scoperta meno probabile, sostengono molte persone all’interno della cultura sorda. E questa tendenza è da alcuni definita persino “un processo di genocidio culturale”, spiega Matter.
Le lingue dei segni e l’approccio “oralista”
Le prime e più rilevanti attestazioni storiche delle lingue dei segni – che mancano di una forma scritta e presentano, come le lingue parlate, differenze piuttosto marcate da paese a paese – risalgono alla seconda metà del XVIII secolo in Francia, quando cominciarono a sorgere le prime scuole di insegnamento per i sordi. Tra queste la più importante fu fondata nel 1760 a Parigi dall’abate Charles-Michel de l’Épée, autore di un metodo di istruzione che ebbe un’ampia diffusione anche al di fuori della Francia (negli Stati Uniti e in Italia).
Nel 1817, infatti, il reverendo americano Thomas Hopkins Gallaudet – con la collaborazione di Laurent Clerc, uno dei migliori allievi e poi maestri di quella scuola francese – fondò a Hartford, nel Connecticut, la American School for the Deaf, tra i primi e più noti istituti americani per l’insegnamento della Lingua dei segni. È per questa ragione storica, per capirci, che l’American sign language (ASL) e la Langue des signes française (LSF) hanno più rapporti e somiglianze linguistiche di quanto l’ASL non ne abbia con il British sign language (BSL), diversamente da quanto avviene per le lingue vocali.
In seguito e per lungo tempo, tuttavia, l’insegnamento e l’uso delle lingue dei segni negli Stati Uniti furono aspramente criticati e contrastati da un movimento d’opinione maggioritario contrario alla diffusione di questa lingua, non riconosciuta come tale e ritenuta piuttosto un ostacolo all’integrazione delle persone sorde nella società. Per questo motivo, dopo il Congresso internazionale degli insegnanti dei sordi svolto a Milano nel 1880, fu favorito un approccio metodologico “oralista” – basato sull’insegnamento della lingua parlata e sulla lettura del labiale – di cui lo scienziato, inventore ed educatore americano Alexander Graham Bell fu uno dei promotori più attivi e convinti.
La diffusione della “cultura sorda”
Soltanto negli anni Settanta del Novecento, a partire dagli studi del linguista William Stokoe, nelle lingue dei segni furono individuati e analizzati – al di là delle funzioni comunicative e sociali – aspetti grammaticali, fonologici, sintattici e lessicali assimilabili a quelli delle lingue parlate. “La gente cominciò a parlare della cultura Sorda (Deaf culture), con la ‘s’ maiuscola per distinguere la cultura dalla condizione”, sintetizza Matter, e le lingue dei segni cominciarono sempre più spesso a essere oggetto non soltanto di studi accademici ma anche di maggiori attenzioni nella cultura di massa.
Nel 1968 fu fondato il National Theatre of the Deaf, la prima compagnia teatrale americana le cui produzioni erano composte in lingua dei segni e lingua inglese, per favorire – secondo lo statuto stesso della compagnia – l’integrazione tra le due diverse culture linguistiche. Inoltre, in uno dei maggiori spettacoli televisivi per bambini, Sesame Street (quello con i pupazzi Muppet), cominciò a comparire stabilmente l’attrice statunitense sorda Linda Bove, nella parte di una blibliotecaria sorda che usava la lingua dei segni. Nel 1987, poi, l’attrice sorda Marlee Matlin vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista per la sua interpretazione di una giovane dipendente di un istituto per sordi in Figli di un dio minore, un film con l’attore William Hurt – con il quale Matlin ebbe allora una relazione – che raccontò e descrisse a milioni di spettatori nel mondo la realtà sempre più diffusa della lingua dei segni. In anni recenti Matlin ha avuto altre parti in serie televisive molto note come West Wing, Desperate Housewives e Seinfeld.
Le reazioni della comunità sorda all’impianto cocleare
Insieme ai temi legati alla sordità e alla lingua dei segni, presto cominciarono a emergere alcune avversioni all’interno delle comunità sorde nei riguardi di quella parte di opinione pubblica comunque incline a considerare la sordità una menomazione, una condizione fisiologicamente deficitaria da “correggere”.
Un episodio significativo delle difficoltà di integrazione tra i due modelli di pensiero capitò alla stessa Marlee Matlin, che comprende e parla anche la lingua inglese (è sorda dall’età di un anno e mezzo, e conserva un udito molto residuo). Alla cerimonia degli Oscar del 1988, e cioè l’anno dopo il successo di Figli di un dio minore, fu invitata a premiare la migliore interpretazione maschile. Dopo aver introdotto il premio usando la lingua dei segni, presentò le nomination e premiò Michael Douglas usando la voce in un modo pienamente comprensibile, per quanto privo di alcuni tratti soprasegmentali. Per aver scelto di parlare in quell’occasione, Matlin ricevette numerose critiche da quella parte della comunità dei sordi che vedeva in lei la rappresentante ideale di un modello culturale composto da persone segnanti, non necessariamente costrette a parlare per sentirsi integrate nella società.
Intanto, verso la fine degli anni Ottanta, lo sviluppo tecnologico e la progressiva diffusione dei primi impianti cocleari favorirono una riconsiderazione positiva dell’approccio “oralista” puro, secondo la teoria per cui i bambini sordi eventualmente dotati di coclea artificiale in età infantile potessero apprendere la lingua scritta e parlata al modo dei bambini udenti. Non è esattamente la stessa cosa, ricorda Matter: tecnicamente l’impianto cocleare non “aggiusta” niente: è una protesi a tutti gli effetti, che viene solitamente disattivata durante la notte e in altri momenti della giornata.
Per sottolineare le differenze che sussistono tra l’approccio “oralista” e quello “segnista” – benché una parte del dibattito sia oggi incline a non considerarli incompatibili – Matter riporta il caso di una ragazza dell’Arizona sorda dalla nascita, cresciuta imparando l’inglese scritto e parlato, e poi sottoposta da ragazza anche all’intervento per impiantare la coclea artificiale, prima di conoscere – soltanto a 17 anni – la lingua dei segni per la prima volta. Sul suo blog scrive:
Prima che imparassi la Lingua dei segni americana (ASL) e che fossi parte della comunità dei Sordi, mi sentivo come se stessi vivendo in un vecchio film straniero in cui niente era chiaro, in cui il mondo era come attutito, in cui ero sola, senza amici, senza vera comprensione. Ero capace di afferrare una parola ogni tanto, di capire alcune cose semplici, ma mai fluentemente, mai con la capacità di cogliere le cose realmente. Quando ho imparato l’ASL e sono diventata parte della mia comunità di sordi, il mio mondo ha improvvisamente trovato colore, vivacità, comprensione continua, scambio di idee.
L’audismo
Una parte della cultura sorda ritiene che l’esistenza stessa dell’impianto cocleare sia l’effetto di un pregiudizio teorico: che una persona sorda abbia bisogno di una “cura”: è un tema, quello dell’alternativa tra menomazione e diversità, tra omologazione e convivenza, che ha investito nella storia molte identità. Alcuni sordi utilizzano il termine “audismo” per riferirsi a questo tipo di atteggiamento per loro discriminatorio. Parlando con un’attivista del gruppo Audism Free America, la giornalista di Matter ha scoperto che – quando emerge la nozione di cura – alcuni membri del gruppo accomunano i pregiudizi nei loro riguardi a quelli nei confronti dei neri o dei gay.
Potrebbe essere vista come un’analogia un po’ forzata, segnala la giornalista, visto che la sordità è pur sempre l’assenza di un senso chiave. Ma Karen Christie, attivista del gruppo, rigettando l’idea della sordità come senso assente, sostiene: “Le persone [nere] non mancano della bianchezza. Io sono una donna, non sono una senza-pene”.
Esistono anche posizioni molto meno nette e rigide, all’interno della cultura sorda. Matter sostiene di avere ricevuto indirettamente informazioni riguardo diverse famiglie composte da genitori entrambi sordi che hanno scelto l’impianto cocleare per i loro figli sordi (e a volte anche per se stessi).
Trevor Johnston, esperto in linguistica delle lingue dei segni alla Macquarie University di Sydney, in Australia, è una persona udente cresciuta con familiari sordi. In un suo articolo del 2005 sosteneva che la perdita di alcune comunità sorde e delle loro lingue dei segni sarebbe “una inequivocabile tragedia culturale e linguistica”, ma poi tirava una conclusione su cui, secondo Matter, gran parte delle persone udenti si troverebbe d’accordo: “Io, per primo, non potrei garantire la perpetuazione di una cultura e di una lingua fondate, in ultima istanza, su una disabilità”. Secondo Aaron Kelstone, direttrice del programma di arti performative al National Technical Institute for the Deaf di Rochester (stato di New York), è possibile che la cultura sorda sopravviva ai margini, cioè tra fasce della popolazione e in zone del mondo – Africa, sud-est asiatico, America Centrale – in cui, per ragioni di disponibilità, la scelta tra impianto cocleare e lingue dei segni neanche si pone.
La decisione dei Reid
Mentre erano alla ricerca di informazioni per prendere in modo preparato e consapevole la scelta migliore per la loro figlia, Christine e Derek Reid conobbero un particolare metodo “bilingue” del Learning Center for the Deaf, una scuola per sordi di Framingham, in Massachusetts. I maestri del Learning Center for the Deaf hanno una filosofia piuttosto chiara riguardo l’educazione dei bambini sordi: insegnare la lingua dei segni come lingua madre e far sviluppare competenze nella lettura e scrittura dell’inglese come seconda lingua (parlarla non è giudicato indispensabile).
Si tratta, chiaramente, di una soluzione che richiede grande impegno da parte della famiglia del bambino oltre che l’accettazione di una serie di compromessi e rinunce. Favorire l’ingresso di Ellie nella cultura sorda da subito implicava per i Reid la possibilità di un loro inevitabile allontamento sul piano della comunicazione, almeno da un certo punto in poi. Per quanto bene potessero imparare la lingua dei segni alla loro età, i genitori di Ellie erano consapevoli che non avrebbero verosimilmente potuto raggiungere più di un livello intermedio di competenza linguistica, come conferma Barbara Herrmann, un’audiologa alla Massachusetts Eye and Ear Infirmary.
I genitori udenti che accettano di favorire al più presto l’ingresso di un loro figlio sordo nella cultura sorda si trovano di fronte a questo rischio: se le loro capacità di “segnare” non miglioreranno fino a certi livelli, a un certo punto non saranno in grado di rivolgersi a loro figlio nella lingua in cui lui si sente più a suo agio. E d’altra parte, senza un impianto cocleare, Ellie avrebbe dovuto imparare a leggere e a scrivere in una lingua (l’inglese) che non aveva mai ascoltato, con tutte le difficoltà del caso e con pesanti e inevitabili ricadute sulla sua futura vita sociale e professionale al di fuori della cultura sorda.
È per questo motivo che i Reid hanno deciso di non rinunciare a nessuna delle due strade possibili, pur consapevoli che Ellie in questo modo non avrebbe fatto parte della cultura sorda nel senso più radicale (cioè senza impianto cocleare). A febbraio 2013, Ellie Reid ha fatto l’intervento di impianto della coclea artificiale per entrambe le orecchie. “Preferisco che Ellie ci detesti perché siamo andati avanti con questa decisione senza il suo permesso, piuttosto che detestarci per non averle mai dato questa possibilità”, ha detto suo padre Derek. Poco dopo l’intervento e la mappatura dell’impianto cocleare, i Reid hanno iscritto loro figlia al Learning Center for the Deaf, dove Ellie sta comunque imparando la lingua dei segni americana come sua prima lingua.
Per il momento Ellie non porta l’impianto cocleare tutto il giorno: ne fa uso principalmente durante i suoi esercizi di ascolto in casa, guardando la televisione. I genitori si rivolgono a lei sia in lingua dei segni sia parlando inglese. Christine è consapevole del fatto che, nonostante l’impegno e tutto, non sarà un percorso facile. Però non si scoraggia e non si pone obiettivi troppo specifici per Ellie. «Se imparerà ad ascoltare e a parlare, ottimo. E se non riuscirà, va bene lo stesso. Se è una segnante allora è una segnante», ha detto alla giornalista di Matter, che conclude l’articolo scrivendo:
I Reid non hanno scelto di avere una figlia sorda, o di essere spinti in una cultura a loro estranea. Sanno che Ellie potrebbe scegliere un mondo che è oltre la loro possibilità di raggiungerlo. La cosa migliore che Christine e Derek possono fare è dare a Ellie l’accesso alla sua eredità culturale di Sorda – un riparo, se dovesse servirle, da un mondo udente in cui potrebbe non sentirsi mai pienamente a casa. E se facendo questo contribuiscono per di più a tenere viva la cultura Sorda, allora tanto meglio.
La lingua dei segni in Italia
Secondo il catalogo internazionale delle lingue Ethnologue, che raccoglie oltre 6.700 lingue parlate in 228 paesi del mondo, esistono almeno 138 diverse lingue dei segni. Insieme all’American sign language (ASL), alla Langue des signes française e al British sign language (BSL), la Lingua dei segni italiana (LIS) è una delle lingue dei segni più studiate e conosciute al mondo. In Italia le persone che la utilizzano sono circa 40 mila, secondo dati dell’Unione Europea dei Sordi (European Union of the Deaf, EUD), un’organizzazione non governativa connessa all’Unione Europea.
I sordi che acquisiscono la LIS nei primi anni di vita rappresentano una percentuale relativamente piccola e hanno generalmente genitori sordi. Esiste poi una seconda fascia di utilizzatori della LIS – più numerosa, formata da sordi figli di udenti – che l’apprendono durante l’infanza o l’adolescenza, scolasticamente e non. Ci sono, per esempio, molti casi di giovani sordi con ottime competenze di italiano parlato e scritto che scelgono di imparare la LIS in un secondo momento e diventare bilingui. E c’è infine una terza fascia di utilizzatori, in aumento, formata da assistenti, interpreti e altro personale segnante – udente e non – impiegato in scuole e istituti specializzati.
Al momento la LIS non è formalmente riconosciuta come lingua dalla Repubblica italiana, né gode delle tutele costituzionali riservate alle minoranze linguistiche secondo l’articolo 6 della Costituzione. Il riconoscimento ufficiale della LIS in Italia è argomento di un lungo dibattito che da anni impegna favorevoli e contrari, e che di fatto ha causato continui rinvii e rallentamenti verso la promulgazione di una legge in materia. La proposta di legge n. 4207, tra le più note in tempi recenti, fu approvata in Senato nel marzo 2011 e poi discussa e contestata alla Camera, prima che l’iter parlamentare venisse interrotto. Alcuni disegni di legge sono attualmente all’esame delle Commissioni permanenti del Senato.
L’articolo 21 (comma 1, lettera “e”) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel marzo 2009 (pdf), impegna gli stati membri a “riconoscere e promuovere l’uso della lingua dei segni”. A novembre 2014, per sollecitare iniziative parlamentari per il riconoscimento della LIS, l’Ente Nazionale Sordi – a sua volta membro fondatore della Federazione Mondiale dei Sordi (World Federation of the Deaf, WFD), un’organizzazione internazionale attiva in 130 paesi in tutto il mondo – ha organizzato e guidato a Roma un corteo nazionale formato da centinaia di utilizzatori della LIS, che indossavano guanti bianchi come simbolo della manifestazione.
Foto: un ragazzo con impianto cocleare segue una lezione in lingua dei segni alla scuola per sordi di Halberstadt, in Germania, il 21 maggio 2009.
(AP Photo/Eckehard Schulz)
Fonte: Antonio Russo, da ilpost.it
Fonte: Antonio Russo, da ilpost.it
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«La storia non è utile perché in essa si legge il passato, ma perché vi si legge l’avvenire» (M.D’Azeglio)
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