Per dare un’idea a chi non abbia avuto la fortuna di conoscerlo, di una delle tante eredità che ci ha lasciato Franco, abbiamo scelto un suo testo scritto nella primavera del 2014 e da noi pubblicato con il titolo Quel vecchio decalogo della buona informazione. L’assoluta attualità dei contenuti parla da sé.
«Con un sobbalzo di sorpresa ho scoperto che in un bel gruppo di Facebook, nato attorno al desiderio di diffondere i princìpi della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, è stato pubblicato un mio ormai antico scritto, visto che risale a più di quindici anni fa, un presuntuoso Decalogo della buona informazione che, in verità avevo scritto ad uso di un dossier realizzato a suo tempo dal Segretariato Sociale della RAI, quando si cercava, ante litteram, di promuovere un approccio corretto alla comunicazione radiotelevisiva e giornalistica sulla disabilità.
A tanti anni di distanza, la mia sorpresa di smemorato (avevo quasi rimosso questo lavoro non semplice) si è unita alla constatazione che i dieci punti da me elencati potrebbero – o almeno mi pare – essere stati scritti adesso, tanto la loro corretta applicazione appare ancora lontana da un esito condiviso e diffuso tra i colleghi e nei programmi.
Ecco perché adesso lo riprendo, affidando ogni riflessione ai Lettori:
Decalogo della buona informazione sulla disabilità
1) Considerare nell’informazione la persona disabile come fine e non come mezzo.
2) Considerare la disabilità come una situazione “normale” che può capitare a tutti nel corso dell’esistenza.
3) Rispettare la “diversità” di ogni persona con disabilità: non esistono regole standard né situazioni identiche.
4) Scrivere (o parlare) di disabilità solo dopo avere verificato le notizie, attingendo possibilmente alla fonte più documentata e imparziale.
5) Utilizzare le immagini, nuove o di archivio, solo quando sono indispensabili e comunque corredandole di didascalie corrette e non offensive della dignità della persona. Quando la persona oggetto dell’immagine è chiaramente riconoscibile, chiederne il consenso alla pubblicazione.
6) Ricorrere al parere dei genitori o dei familiari solo quando la persona con disabilità non è dichiaratamente ed evidentemente in grado di argomentare in modo autonomo, con i mezzi (anche tecnologici) a sua disposizione.
7) Avvicinare e consultare regolarmente, nell’àmbito del lavoro informativo, le associazioni, le istituzioni e le fonti in grado di fornire notizie certe e documentate sulla disabilità e sulle sue problematiche.
8) Ospitare correttamente e tempestivamente le richieste di precisazione o di chiarimento in merito a notizie e articoli pubblicati o diffusi.
9) Considerare le persone con disabilità anche come possibile soggetto di informazione e non solo come oggetto di comunicazione.
10) Eliminare dal linguaggio giornalistico (e radiotelevisivo) locuzioni stereotipate, luoghi comuni, affermazioni pietistiche, generalizzazioni e banalizzazioni di routine. Concepire titoli che riescano ad essere efficaci e interessanti, senza cadere nella volgarità o nell’ignoranza e rispettando il contenuto della notizia.
Correva l’anno 1998 e la Convenzione ONU era ancora lontana dal vedere la luce. A ispirarmi, in parte, fu la Carta di Treviso, uno dei documenti più lungimiranti prodotti dall’Ordine dei Giornalisti a tutela dell’informazione sui minori.
In realtà, in quelle dieci avvertenze per l’uso, c’era tutto il mio imbarazzo di giornalista – allora – nel constatare quotidianamente il modo superficiale e sciatto (privo di professionalità) da parte di molti colleghi anche autorevoli, che sulle testate di appartenenza – giornalistiche o radiotelevisive -, ritenevano di poter scrivere sulla disabilità senza il bisogno di saperne di più, di attingere a fonti autorevoli e verificate, di rispettare la dignità delle persone.
Molta acqua è passata sotto i ponti, e il nostro mestiere, oggi, è sottoposto ancor più di prima al logorio della fretta e della concorrenza al ribasso. Il “copia e incolla” del web comporta inoltre un ulteriore impoverimento delle fonti e della qualità della scrittura e dell’approccio. I programmi televisivi, come documentiamo spesso, alternano fiammate di lucidità e di grande qualità a cadute rovinose nello stereotipo e nel pregiudizio.
Ecco perché oggi mi sono sommessamente permesso di riproporre questo decalogo, non per apparire un “vecchio barbagianni”, ma semplicemente un giornalista che non è mai contento del lavoro svolto e che cerca sempre di imparare, di apprendere, di ascoltare, prima di scrivere.
Franco Bomprezzi – 9 aprile 2014».PER SAPERE DI PIU'
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