Marilena Abbatepaolo, la prima preside non udente d’Italia.
Coraggio e determinazione, resilienza e visione. Sono le doti di Marilena Abbatepaolo, dirigente 42enne che conduce una battaglia ambiziosa: ridare il sorriso alla scuola italiana. Anche attraverso l’uso delle mascherine trasparenti, indispensabili per i sordi e fondamentali per riavvicinare tutti
Una sfida perenne tra il possibile e l’impossibile. Quarantadue anni e almeno 4 vite già vissute in cui non ha mai smesso di ripetersi il motto: «Se vuoi, puoi; se puoi, devi». Ora che alle prese con la pandemia Covid il futuro ci sfugge, lei, Marilena Abbatepaolo, pugliese di nascita e romana di adozione, l’unica preside (e poeta) non udente d’Italia, non smette di darsi da fare e sognare. «Pur con una disabilità uditiva che dovrebbe allontanare dal mondo, mi sforzo di andare incontro all’altro» dice.
Maturità classica con il massimo dei voti, laurea in Lettere classiche con 110 e lode, due dottorati di ricerca, in Lingua e letteratura latina e in Letteratura italiana del Rinascimento. E, soprattutto, coraggio e determinazione, resilienza e visione. Ha creato “La scuola del sorriso”, un modello che attinge le sue radici nella Ca’ Zoiosa di Vittorino da Feltre - una delle prime scuole fondate in età umanistica - presso l’Istituto comprensivo La Giustiniana che dirige a Roma.
Tre plessi, 910 alunni: qui, lei e 100 docenti dal primo giorno di scuola indossate mascherine trasparenti, riutilizzabili, lavabili a casa. «Sì, i miei docenti e il personale volevano che io capissi loro, ma poi abbiamo compreso che era utile al cuore tornare a guardarci. Non ci sono bambini sordi iscritti, ma a scuola c’è bisogno di mascherine trasparenti per una questione di empatia. Ho scelto di fare la dirigente scolastica con un’immagine, la Ca’ Zoiosa di Vittorino da Feltre: per me la scuola è un giardino pieno di colori dove ogni bambino è un seme diverso. Tutti qui devono portare il loro sorriso, ogni mattina».
Ora lei chiede mascherine trasparenti anche per gli studenti. Con il presidente dell’Ente nazionale sordi ha scritto al premier Conte e ai ministri Azzolina e Speranza, ma non avete avuto risposte. «Rilancio il nostro appello: la scuola ne ha bisogno non solo per alunni e docenti sordi ma per tutti. I non udenti hanno diritto alla loro autonomia e la mascherina, oggi, è una barriera architettonica. Io voglio indossare quella trasparente e voglio che chi parla con me la indossi, va adottata in tutti gli uffici e luoghi al servizio del pubblico. Durante il lockdown sono state drammatiche le prime esperienze al supermercato, alle Poste. Non capivo nulla. Ho provato le sensazioni di limite e inadeguatezza dei miei 16 anni, quando ho cominciato a non sentire».
È successo 26 anni fa: come è stato trovarsi un mattino piombata nel silenzio? «Tremendo: tutti i miei sogni mi sono crollati addosso. A 16 anni hai paura. Temi che nessuno mai potrà amarti».
Con la sordità è iniziata la sua seconda vita. «Ho capito che la sordità poteva essere anche un dono, mi permetteva finalmente di cogliere tutte le vibrazioni dell’universo. C’era il tramonto: avevo 18 anni e mi sentivo tanto sola. Ho guardato il sole e mi sono accorta che esistono suoni che passano oltre le orecchie. Così ho udito davvero, per la prima volta».
Ipoacusia neurosensoriale era la diagnosi: nessun preavviso e non è mai riuscita a capire perché è sorda. «No. Diciamo che le mie cellule si sono autodistrutte».
La scuola per Marilena studentessa è stata inclusiva? «No, era tutto affidato alla bontà dei professori e per fortuna la maggior parte aveva competenze. Ma ricordo di aver avuto moltissime difficoltà con l’inglese e la docente, che nemmeno sapeva il mio nome perché era una supplente, mi prendeva in giro quando non capivo. Ci restai così male che finii dal medico. Mi hanno sorretta i libri, Leopardi per esempio, il primo amore della mia vita. E poi scrivere».
Che scuola serve ai nostri figli? «La scuola deve tornare ad essere umana. Ci perdiamo dietro i numeri, dietro le carte. I ragazzi vanno ascoltati».
Lei ha ricoperto anche ruoli politici, nella sua terza vita. «Ho amato e amo la politica. Per 5 anni sono stata assessore alla cultura nel mio Comune, a Polignano a Mare, in provincia di Bari. Mi ci sono dedicata a tempo pieno, mettendomi in aspettativa».
Due anni fa ha deciso di lasciare la Puglia, la politica, si è separata da suo marito e si è trasferita a Roma per dedicarsi ad educare e scrivere. «Una quarta vita. Roma io l’ho studiata. I miei 2 saggi universitari raccontano della città, mi sono occupata di storia romana e arte tardoantica. Roma era un sogno, non ci venni a 18 anni per paura. Due anni fa mi sono detta: è tempo. E ho chiesto il trasferimento».
Ha traslocato con la gatta Gala, un carico enorme di libri e ha subito scritto la raccolta Partitura in Versi (Les Flâneurs Edizioni). «Il mio libro è frutto di un dialogo grazie al quale ho trovato Marilena che ama la musica e la poesia. Così ho voluto raccontare la mia storia».
Lo spirito combattivo e creativo sembra non abbandonarla mai. Ha paura anche lei? «Sì, di tante cose. Ma ho coraggio. Il coraggio nasce dalla paura. E allora mi rendo conto che ora nulla mi spaventa davvero».
Mascherine anti-Covid: una barriera architettonica
«Per i non udenti le mascherine sono una barriera architettonica» dice Marilena Abbatepaolo. Tutti gli studenti potrebbero indossare quelle trasparenti in aula, ma al momento il Ministero dell’Istruzione le fornisce solo all’Istituto Magarotto di Roma e Padova, scuola statale specializzata per sordi, o le invia agli istituti con alunni sordi su richiesta delle famiglie.
Ci sono aziende, anche italiane, che hanno iniziato a produrle e sono certificate dal Comitato Tecnico Scientifico come dispositivi sanitari anti-Covid. La Under Shield di Fontaniva (Padova), per esempio, le fornisce all’Istituto Magarotto. La Regione Emilia-Romagna è la prima (e unica) in Italia ad aver approvato una risoluzione per dotare gli istituti del territorio anche di mascherine “per lettura labiale”.
Elisa Forte. Fonte: donnamoderna.com
La scuola ai tempi della mascherine. «Per noi sordi è un muro più alto».
Le storie degli studenti raccolte dall’associazione «Ioparlo». «Necessarie, ma i ragazzi non leggono il labiale dei maestri».
«Mi chiamo Agnese, ho 14 anni e sono in prima superiore. A me piace molto andare a scuola e mi piacerebbe tornare in aula con i miei compagni, ma se i professori portano la mascherina non riesco a comprendere quasi niente». Agnese è sorda e non è l’unica che denuncia questo problema fra tutti quegli alunni non dotati dell’udito che non riescono a leggere il labiale degli insegnanti.
Tra loro c’è anche Jury: «Faccio la seconda media. Io preferisco fare la scuola a distanza perché con il Mini mic attaccato al computer (un apparecchio per noi sordi) riesco a seguire cosa dice l’insegnante mentre a scuola, con i professori che non si levano mai la mascherina è veramente noioso far passare il tempo perché io, non capisco quasi niente di quello che dicono quando hanno la mascherina». E poi ancora Maria, che frequenta la quarta superiore. «Preferirei le lezioni in presenza per poter interagire con i professori e con gli amici in classe, ma l’uso delle mascherine è una barriera che mi impedisce di vedere il labiale e attutisce il tono della voce quindi, alla fine, per me è meglio la Dad».
Quasi un paradosso, per gli studenti sordi, che preferiscono restare a casa perché così possono leggere il labiale dei professori che parlano senza mascherina. Cosa che invece non è possibile in classe, in presenza, visto che i maestri e i professori usano la mascherina e in questo caso il labiale non viene percepito dagli studenti. Una barriera per tutti, la mascherina, ma lo è ancor di più per chi non ha il dono dell’udito.
Ecco perché, dall’associazione fiorentina «Ioparlo», si chiede alle scuole di dotarsi, come succede ormai in quasi tutti i centri commerciali e i negozi, dei plexiglas protettivi. «Potrebbero essere installati — spiega la presidente dell’associazione Laura Brogelli — tra la cattedra e i banchi degli studenti, così i maestri e i professori potrebbero parlare liberamente senza mascherina e anche gli alunni sordi, leggendo bene il labiale, potrebbero comprendere perfettamente la lezione».
Anche Federico, che frequenta la prima media, racconta le sue difficoltà e il tentativo dei professori di venirgli incontro: «Una professoressa un giorno è venuta in classe con una mascherina trasparente, voleva aiutarmi ma si è subito appannata e lei ha sudato molto». A Tommaso, 12 anni, studente di seconda media, è andata diversamente: «Quando andavamo a scuola, tutti i professori si abbassavano la mascherina perché sapevano che a me serve molto poter guardare il labiale. Un solo insegnante, nonostante che gli fosse stato chiesto da due insegnanti e dai miei genitori, continuava a tenerla su anche se seduto in cattedra e quindi alla distanza necessaria. Un giorno però, ho trovato il coraggio e gli ho chiesto io se gentilmente poteva levare la mascherina spiegandogli che per me era importante perché così avrei potuto capirlo meglio mentre parlava. Ha accettato e così anche in presenza, con lui non ho più problemi».
In alcune scuole, la soluzione col plexiglas è stata trovata. Lo racconta Giovanni, 12 anni in seconda media: «A me non piace la didattica a distanza, duro fatica a concentrami con le lezioni al computer. A scuola i prof solitamente non usavano la mascherina. Sulla cattedra era stata messa una barriera-schermo in plexiglas e così loro stavano lì dietro ed io potevo seguire le lezioni senza molte complicazioni. Il plexiglas un po’ attutisce il tono della voce ma veder il labiale è un grande aiuto».
Il coronavirus mi ha lasciato senza parole LA STORIA
La mascherina, che copre la bocca, per lei è una barriera che la esclude dal mondo. Se non vede le labbra di chi le sta davanti non può comunicare con gli altri. Per Vera De Tina, 36 anni di Codroipo, il Coronavirus ha portato un problema in più: l'impossibilità di leggere le parole. Lei è sorda dalla nascita e, per una terribile concatenazione sensoriale, destinata a essere anche muta. Se il cervello non sente i suoni non riesce neanche ad elaborare le parole in uscita. Per questo si dice semplificando, sordomuti. Vera ha dato un calcio all'handicap che l'aveva colpita e oggi parla e capisce ciò che dicono gli interlocutori. Non solo: ha avuto un brillante percorso scolastico che l'ha portata alla laurea all'Accademia di Belle Arti.
L'OBIETTIVO
La forza di volontà, il sacrificio e le persone giuste accanto, possono ottenere quello che impropriamente viene etichettato come miracolo. La storia la racconta lei stessa. Il colloquio avviene nel suo appartamento. Senza la mascherina, ma con le dovute distanze di sicurezza. «Se sono arrivata a questo punto lo devo ai miei genitori, che mi hanno stimolata fin da piccola seguendomi con amore e facendo grandi sacrifici per aiutarmi nel mio percorso di riabilitazione». Mamma Emilia e papà Ernesto, seduti dall'altra parte del tavolo, sorridono e ammettono che all'inizio è stata davvero dura. «Fino all'età di due anni - racconta la madre - non avevamo capito che fosse sorda, perché era così intelligente che capiva tutto. Ci eravamo resi conto che c'era un ritardo nella parola. Emetteva solo suoni. Nemmeno i medici l'avevamo capito. Quando abbiamo avuto il responso è stata una mazzata. Non sapevamo da dove cominciare. Come si devono comportare una madre e un padre con un figlio sordomuto? L'unica cosa di cui eravamo certi e che non cercavamo compassione. Vera era una bambina meravigliosa, non era diversa dagli altri. Non doveva diventare una diversa». Una scelta coraggiosa. Niente istituti specializzati per questo tipo di problemi. Niente ghetto con bambini nelle stesse condizioni.
LA SFIDA
«Non le abbiamo fatto imparare la lingua dei segni - chiarisce ancora la madre - perché anche quello costruisce un fattore di emarginazione. Per nostra figlia abbiamo scelto un percorso normale. L'unica eccezione ha riguardato la scuola elementare. In quella pubblica si alternavano tre maestri: troppi per una bambina che doveva leggere dalle labbra. L'abbiamo trasferita in una scuola privata a Udine con una maestra unica, come si usava una volta. Così si è creato un rapporto più diretto. Diciamo che c'era più dialogo». Vera ascolta. Dei primi anni della sua vita, ovviamente, ricorda poco. «È stata dura, perché dovevo studiare il doppio. In classe cercavo di capire cosa diceva la maestra, ma all'inizio non era semplice. Al pomeriggio la mamma e il papà ascoltavano la registrazione della lezione e mi spiegavano di nuovo». È stato così per tutto i cicli di studi fino alla laurea. Vera registrava le lezione e il padre la batteva a macchina. «Per capire devo guardare le labbra di chi parla - chiarisce la ragazza - non potevo prendere appunti. E poi, se il professore si girava, oppure abbassava la testa, per me si spegneva il contatto». «Tutti i giorni a battere a macchina - conferma il padre Ernesto, insegnante di religione ora in pensione - È come se avessi rifatto le scuole anch'io». Ma se non è il caso di parlare di miracolo, perché il merito è della forza di volontà, in questa storia almeno un angelo c'è.
LA LOGOPEDISTA
Erzsebet Tasnadi, la logopedista che ha seguito Vera fin da bambina. «È una donna straordinaria - afferma con trasporto mamma Emilia - ha stabilito con nostra figlia un rapporto splendido. Se abbiamo ottenuto questi risultati lo dobbiamo in buona parte a lei. E alla Regione Friuli che ha sempre contribuito alle spese per seguire Vera. Senza l'aiuto pubblico non avremmo avuto le possibilità economiche. Ci tengo a ringraziare pubblicamente la Regione e il Comune per il sostegno che ci hanno dato». Detto per inciso, anche la figlia più giovane, Maddalena, è nata con gli stessi problemi ed ha seguito con successo un percorso simile di riabilitazione e pieno recupero. Vera ascolta, è la protagonista della storia, però vuole restare un po' defilata: «Io racconto quanto ho vissuto, perché spero di aiutare altri che sono nelle mie condizioni. Non voglio complimenti, semmai vorrei completare il mio inserimento lavorativo ed essere completamente autonoma». Questo è il prossimo traguardo. Per ora non ha un lavoro stabile e in questo momento usufruisce del reddito di cittadinanza. «Mi adatto a fare qualsiasi cosa, anche se il sogno sarebbe di dedicarmi alla creatività artistica. Però lo so che con l'arte è difficile vivere». La mano sembra felice.
IL FUTURO
Alle pareti numerosi quadri dipinti da lei. Qualche successo lo ha già avuto: un paio di esposizioni, qualche premio a concorsi d'arte, una serie di ritratti realizzati per un istituto di credito. «Devi osare di più», la incita la mamma. Vera non è tipo da tirarsi indietro. Recentemente ha conseguito la patente di guida. Altro grande successo per chi è nelle condizioni di Vera: «Il difficile era capire cosa mi diceva l'istruttore durante le lezioni di guida - racconta sorridendo - lui era seduto accanto a me, ma per capirlo dovevo guardare la sua bocca e se mi giravo non guardavo la strada! Abbiamo trovato un codice di segni per dialogare. Un altro problema riguarda l'uso delle marce: io non sento il rumore del motore e devo cambiare regolandomi sulla velocità». Racconta tutto con estrema naturalezza. Parla in maniera chiara, lenta, con proprietà di linguaggio. «In questo periodo non posso fare nemmeno le cose più semplici. L'altro giorno mi sono recata all'ufficio postale. Quando l'impiegata mi ha fatto una domanda mi sono vergognata. Ho dovuto chiederle di abbassare la mascherina». Il Coronavirus colpisce anche senza infettare. (5 novembre)
GIANPAOLO VUOLE PARLARE: LA SORDITÀ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Ho incontrato Gianpaolo Muser* un paio di anni fa, alla festa di compleanno di una delle mie migliori amiche. Quando parlo di lui, faccio davvero fatica ad associarlo a una persona con deficit uditivo. I suoi genitori se ne sono accorti a sedici mesi, così mi ha scritto. Fin da piccolo, gli hanno fatto seguire lezioni di fonetica tutti i giorni, un’ora al giorno e poi, crescendo, un’ora alla settimana, fino al termine delle scuole. La sera, mamma e papà si dedicavano a lui.
Gianpaolo non ha mai voluto essere trattato in modo diverso dagli altri. Nel corso degli anni, le cose sono cambiate anche a livello normativo. La legge 95 del 20 febbraio 2006 ha sostituito il termine «sordomuto» con l’espressione «sordo»; in particolare viene sancito che «si considera sordo il minorato sensoriale dell’udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva che gli abbia compromesso il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psichica o dipendente da causa di guerra, di lavoro o di servizio». Oggi Gianpaolo ha 38 anni e vive a Codroipo con la sua compagna. Ho voluto realizzare questa intervista per farvi vedere il mondo ai tempi del Coronavirus con i suoi occhi.
1) Come stai vivendo questo periodo storico eccezionale e complesso in relazione alla tua disabilità uditiva?
Non è facile orientarsi in questo nuovo mondo di divieti, regole e raccomandazioni. Noto che alcuni telegiornali non hanno i sottotitoli o non funzionano bene e, spesso, non traducono esattamente il linguaggio parlato. Per tale ragione mi devo sforzare molto di più per comprendere prima il timbro della voce di chi conduce il telegiornale e, di conseguenza, capire il discorso-tema che stanno trattando in quel momento. In ospedale o dove lavoro riscontro il medesimo disagio, mi devo sforzare molto di più per comprendere perché usano la mascherina davanti alla bocca e quindi risulta impossibile leggere il labiale.
A volte, al supermercato, devo chiedere di ripetere il discorso, proprio perché mi manca la visibilità del labiale che mi aiuta a comprendere meglio.
2) Sei un operaio nel settore commerciale della termoidraulica. Cosa significa recarsi al lavoro adesso? Come sono cambiate le dinamiche relazionali?
Andare al lavoro crea sempre una certa apprensione, anche se usiamo le mascherine e i vari dispositivi di sicurezza, mantenendo la distanza di almeno un metro, ma con la mascherina addosso ho non poche difficoltà. Ovvero, come detto prima, se alla lettura del labiale si aggiunge la distanza capisco ben poco. Anche in questo caso devo farmi ripetere oppure i colleghi devono togliersi la mascherina (sempre mantenendo le distanze di sicurezza) per poter comunicare meglio con me.
3) Abbiamo visto comparire il linguaggio dei segni nella comunicazione istituzionale, come ti immagini il futuro della comunicazione in relazione ai vostri bisogni? Come si potrebbe intervenire per venirvi incontro?
Diciamo che non sono molto propenso verso la lingua dei segni però ci sono persone sorde che hanno necessità diverse dalle mie; alcuni hanno appunto bisogno della lingua madre dei sordi ovvero la LIS, altri invece i sottotitoli o che si veda meglio il labiale.
Siamo nel 2020, se utilizziamo meglio i sistemi di comunicazione potremmo comprendere il discorso attraverso il labiale, attraverso la LIS o con una sottotitolazione migliore.
Al momento in Piemonte, Abruzzo, Toscana e Campania è stato attivato un servizio ponte per mettere i sordi in contatto con i numeri di emergenza attraverso delle piattaforme dedicate. Chi può si appoggia ai familiari, ma è una minoranza perché, in parecchi casi, la sordità è genetica e affligge tutta la famiglia. Una situazione molto complessa con cui la comunità dei non udenti si confronta da sempre, ben prima che arrivasse la pandemia a stravolgere le nostre vite.
Negli ospedali iniziare a mettersi la mascherina trasparente sarebbe di grosso aiuto.
4) In questo momento si parla molto di didattica e formazione a distanza: una sfida non semplice per l’ambito educativo e formativo per dare riscontro alle persone con disabilità uditive. Cosa consigli al fine di non lasciare indietro nessuno?
La formazione a distanza presenta una lacuna importante per l’istruzione scolastica del non udente ovvero, quando si tratta di fare videoconferenze con tutta la classe, non c’è nessuno che traduca quanto viene detto. Mentre per il programma scolastico specifico creato apposta dall’insegnante di sostegno per l’alunno non udente non ci sono dei problemi. Questo aspetto è sicuramente da migliorare.
5) Una notizia importante è che alcune realtà si stanno riconvertendo per realizzare mascherine; nello specifico alcune proprio per consentire la comunicazione con le persone sorde lasciando la parte della bocca trasparente. Speriamo che queste realtà crescano sempre di più. Qual è il tuo pensiero in merito?
In piena emergenza Coronavirus, tra i principali problemi vi è la reperibilità di mascherine per gli operatori del settore sanitario e non solo. Molte persone si stanno dando da fare per autoprodurle a casa. Più di qualcuno ha pensato anche alle persone sorde o con problemi di udito creando una mascherina che lasci la parte della bocca trasparente. Grazie. Lo dico veramente con il cuore a queste persone che si sono ingegnate e hanno portato avanti questa iniziativa abbattendo così un muro, un muro non da poco.
6) Sei felicemente fidanzato e innamorato. La vostra è una storia bellissima, che supera ogni ostacolo e barriera legata alla disabilità. Come avete affrontato le criticità legate alla comunicazione? Lei non ha problematiche connesse all’udito, è riuscita agevolmente ad apprendere il linguaggio dei segni?
Stiamo insieme da circa cinque anni. All’inizio è stata dura per entrambi, ma non tanto per la comunicazione (fortunatamente riesco a parlare abbastanza bene e a capire), ma a causa della distanza. Diciamo che io al telefono capisco poche persone e usando il vivavoce. Mi ci vuole del tempo per memorizzare il timbro di una persona per poi comprendere meglio al telefono. E agli inizi era, appunto, difficile. Allora la mia compagna mi ha regalato un cellulare con la possibilità di videochiamare. Questo è servito per accorciare le distanze.
7) Hai dedicato parte del tuo tempo anche a fare il clown in corsia, com’è nata tale necessità di donarsi agli altri, in particolare con questa modalità?
Da poco tempo ho lasciato il volontariato, compresi i Claun di Corsia, per motivi di lavoro. Quindici anni insieme. Tutto è partito dall’idea che ci sono anche io, che posso dare il mio contributo per aiutare il prossimo in difficoltà o a inserirsi nella società. Iniziai fondando due associazioni, Osuf e Giovanidee, realtà di integrazione di non udenti e udenti attraverso lo sport, la musica e varie iniziative di integrazione e beneficenza nei confronti del prossimo. Anni dopo entrai a fare parte dell’associazione Friulclaun dove non mi sono mai trovato in grosse difficoltà nel relazionarmi con le persone o con i pazienti. Ho avuto la fortuna di aver trovato un bellissimo gruppo che mi ha sempre sostenuto e per il quale la mia disabilità non era un’ostacolo ma una ricchezza.
8) Qual è il ricordo che ti è rimasto maggiormente nel cuore della tua esperienza accanto ai malati?
Il ricordo che maggiormente mi è rimasto impresso è quello di un bambino ricoverato in pediatria, come tutti gli altri, ma con una grande voglia di lottare nonostante fosse ricoverato per problematiche non da poco. Mi sono rivisto in lui, in quello che non molla mai, in quello che lotta sempre.
9) Che significa non potere essere fisicamente in corsia in questo momento? State pensando di fare pervenire il vostro supporto in altri modi ai piccoli pazienti e agli anziani?
Anche se non sono più un clown attivo, resto sempre un clown nel cuore e nella mente e, nel mio piccolo, cerco di aiutare e sostenere le varie iniziative da fuori, esattamente come stanno facendo anche gli altri clown, visto che non possono svolgere il servizio di volontariato negli ospedali.
10) Quali sono #le10cose che farai appena l’emergenza sarà passata e verrà consentito?
Farei un milione di cose, sicuramente, conoscendomi. Diciamo che ho in cantiere dei progetti d’integrazione e di beneficenza, ma, come prima cosa, vorrei riabbracciare i familiari e gli amici.
11) Cos’è per te l’entusiasmo?
Se pensiamo all’entusiasmo, d’istinto ci vengono in mente cose positive per definirlo. In genere, quindi, lo associamo a valori positivi. Ci aiuta a cercare un cambiamento e a migliorare come persone. L’entusiasmo ci fa crescere e aumenta la nostra qualità di vita, senza contare il fatto che è di grande motivazione per fare quello che ci fa stare bene.
In altre parole, questo sentimento ci motiva a ricorrere ai mezzi necessari per raggiungere un obiettivo. È una speranza iniziale, alimentata dall’idea o dal presentimento di aver trovato qualcosa di positivo. Cosa significa? Che è l’entusiasmo a stimolarci e lo fa con le azioni che mettiamo in pratica per raggiungere il nostro obiettivo e attraverso la consapevolezza.
Il talento è necessario, ma senza entusiasmo non si può arrivare davvero lontano.
*[La fothttps://www.annalisanastasi.it/gianpaolo-vuole-parlare-la-sordita-ai-tempi-del-coronavirus/o di Gianpaolo Muser è di Jenny Taverna].
Il documentario di Elisa Paganelli: la vita dei sordi ai tempi del Covid La cantante di Scanzorosciate ha trasformato le persone dormo dotate in non udenti per un giorno, per riflettere . «Siamo tagliati fuori da tutto»
Per comprendere gli altri, chi è sordo ha bisogno di guardare le labbra che si muovono in modo da decifrare le parole. E, ai tempi del Covid e dei volti coperti dalle mascherine, i portatori di questa disabilità vivono un doppio isolamento. La condizione è raccontata, in modo leggero, da Elisa Paganelli, cantante di Scanzorosciate, nel documentario a puntate «Un giorno da persona sorda»: il trailer è su Youtube e sulla sua pagina Facebook, mentre sabato sarà pubblicato il primo episodio.
Elisa ha una sordità totale da un orecchio e grave dall’altro. «Il mio scopo è sensibilizzare, far riflettere su come ci sentiamo, un po’ come accade con le cene al buio per i ciechi — spiega l’artista —. La nostra quotidianità è da sempre difficile, con annunci di metro e treni audio, adesso, con le mascherine, siamo tagliati fuori del tutto. Capire un semplice “ciao, come stai?” è impossibile, immaginate andare al supermercato o dal medico».
Nei filmati, girati e montati dalla Paganelli, si vedono persone trasformate in sorde, grazie a tappi e cuffie, alle prese con azioni quotidiane. Una ragazza, Chiara Belleli, deve acquistare un abito per un battesimo in una boutique a Bergamo, interagendo con la commessa. Il sindaco di Scanzorosciate, Davide Casati, presiede, da non udente, un consiglio comunale, mentre il responsabile della protezione civile Paolo Colonna è alle prese con la guida e dovrà discutere di una (finta) multa con la vigilessa Marcella Gallina. Per Letizia Breda la sfida è seguire le lezioni a distanza del professor Marzo Lazzari dell’Università di Bergamo. C’è anche una mamma, Francesca Maltecca, che gestisce una ludoteca a Trescore, impegnata nel preparare la merenda, e Anna Fumagalli, voce dei Lachesis, che deve cantare, da sorda, proprio come Elisa. «Per tutti è stata una prova spiazzante, a cavarsela meglio, poiché il volume era alto, è stata la cantante, il sindaco il giorno dopo ha fatto arrivare negli uffici le mascherine trasparenti — racconta Elisa —. La soluzione più raccomandata, davanti a un sordo, è di allontanarsi e abbassare la mascherina, ma non può accadere se si è in un ufficio, poiché si espone l’altro al contagio».
I video sono stati girati tra agosto e ottobre nel rispetto delle normative in vigore al momento. Elisa non è stata ferma neanche durante il lockdown: aveva cantato e suonato sul balcone per avvicinare i cuori costretti alla lontananza. Rosanna Scardi. Fonte: corriere.it
«La storia è testimonio dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita» (Cicerone)
«La storia non è utile perché in essa si legge il passato, ma perché vi si legge l’avvenire» (M.D’Azeglio)
«Bisogna ricordare il “passato” per costruire bene il “futuro”» (Vittorio Ieralla)
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"Storia dei Sordi. Di Tutto e di Tutti circa il mondo della Sordità", ideato, fondato e diretto da Franco Zatini