Alla luce di un sincero e non edulcorato racconto della biografia famigliare, che fa in prima persona, ma che molto affida alle parole e al ricordo dei fratelli viventi – Piergiorgio, Alberto, le due sorelle – I pugni in tasca assume così una lettura ulteriore, più nitida, si definiscono meglio le sfumature, il concavo e il convesso della narrazione, non perché il film sia specchio della sua storia di famiglia, ma perché sembra proprio respirarne l’eco e il riflesso, conferendogli così un tratto fortemente “biografico”.
Maestro, I pugni in tasca, alla luce di Marx può aspettare, assume un profilo ulteriore, è come se ci stesse permettendo di leggerne ulteriori sfumature biografiche, come se il suo primo film e il suo più recente fossero l’apertura e la chiusura di un cerchio. È così?
Sicuramente ci sono delle relazioni, se sia una chiusura non lo so, perché so benissimo che anche parlando di Aldo Moro o Mortara una serie di temi ritorneranno, però Marx fa riferimento a I pugni in tasca, sicuramente c’è un rapporto; poi, non dimentichiamo che in quest’ultimo film si parla di una tragedia avvenuta nel ‘68, e I pugni in tasca è del ’65, infatti c’è anche un’immagine ritrovata fortunatamente in cui Camillo assiste ad una ripresa: c’è Lou Castel, c’è lui, ci sono io, sono cose molto preziose.
È eccessivo affermare che lei, con alcuni suoi film - Gli occhi, la bocca, L’ora di religione per citarne un paio –abbia cercato di fare un personale lavoro di analisi/psicanalisi del suo vissuto personale, soprattutto in riferimento alla tragedia di Camillo?
Più in generale direi in riferimento alle disgrazie della mia famiglia! I film più classici partono sempre da un’idea, da un’immagine, che però non ha il compito di risolvere un problema: così ne L’ora di religione mi ricordo quest’idea della santificazione della madre, che ha messo in moto la storia, in cui poi si sono ricacciate tutta una serie di esperienze vissute, dal manicomio alla bestemmia; io credo che se uno non sta bene si debba curare, il come e con chi sono un altro discorso, ma ho questa dimensione positiva, per cui se tu stai male devi parlare, avere qualcuno che ti risponda, cosa che non ebbe Camillo: lo compativano, lo proteggevano, ma non gli davano la risposta che lui chiedeva, e questa è stata la sua tragedia.
Il senso di colpa, che serpeggia nel film, molto appartiene anche alla religione cattolica: in che maniera lei è credente? E quanto il suo vissuto famigliare, la palpitante Fede di sua madre, hanno inciso sul suo modo di credere/non credere?
Che io sia credente è molto discutibile, però lascio credere a chi vuol credere. Il senso di colpa è qualcosa di positivo, che induce alla redenzione, alla penitenza: tu hai senso di colpa perché hai peccato, quindi chiedi perdono, dunque la salvezza: come L’Innominato, nel grande romanzo I promessi sposi. Nel mio film si può parlare di senso di colpa anche a prescindere dalla religione: il senso di colpa - mio, ma anche dagli altri - di non aver capito, di non aver amato abbastanza un fratello, un gemello.
Marx può aspettare è un film-documento, in cui Bellocchio chiama a raccolta la famiglia, la famiglia natale, così come i suoi figli, Pier Giorgio e Elena, uno psichiatra, un prete, e qualche altro soggetto prossimo, nel nome di Camillo, quel gemello nato appena dopo di lui – nella sequenza cronologica di venuta al mondo dal parto – figlio, come lui e tutti i fratelli, di quella mamma ossessionata in particolare dalle fiamme dell’Inferno, che però, rispetto alla genialità culturale di Piergiorgio e di Marco, all’intraprendenza di Alberto, ha sempre sofferto la sua insoddisfazione nel non riuscire a definire il proprio posto nel mondo, nemmeno quando – di sua iniziativa – aveva intrapreso la strada degli studi dell’Isef e aperto una propria palestra, spazio ultimo della sua vita terrena. E così, da quel giorno, e ancora fino al film, i fratelli Bellocchio si fanno colpa di non essere stati capaci di leggere fino in fondo quella sua palese perenne “malinconia”, depressione: Marco Bellocchio fa molto parlare i fratelli e i loro ricordi, li incalza e li ascolta, lui stesso ricorda, ma meno, sembra restare un passo indietro, come se cercasse le sue risposte nelle parole degli altri, ma quando lo fa, quando racconta frontale, si mette soprattutto sotto lo sguardo dei suoi figli, dei suoi eredi, anche loro fratelli, come fossero le persone reputate più disponibili all’ascolto di qualcosa di errato del suo comportamento, un’ossessione che certamente ha psicanalizzato con le storie dei suoi film, e che con quest’ultima opera sembra aver cercato di marmorizzare per sempre, ma forse non di risolvere davvero, come d’altronde accade con qualsiasi vissuto dalla predominante emotiva, eterno compagno delle vite di chi resta.
Bellocchio, qual è il suo personale rapporto con la morte? E in particolare, dall’episodio di Camillo, è cambiato, ha mutato il suo punto di vista, oppure no?
Dall’idea cerco di difendermi, tanti amici non ci sono più. Il continuare a lavorare non modifica il mio rapporto con la fine, non credo all’eternità. Il rapporto con la morte varia dalle condizioni personali, c’è sempre una sottile angoscia, ma se sei dentro la vita ti dimentichi che esista anche questa possibilità.
Il film procede anche preso per mano da sequenze musicali che ne abbracciano, intensificano, accarezzano quelle del racconto, con le musiche - alcune inedite, altre parte del suo repertorio - curate da Ezio Bosso.
Con lui, che scambio c’è stato, lei cosa ha chiesto al Maestro?
Purtroppo, il rapporto è stato minimo e indiretto, nel senso che durante la lavorazione di Marx ho chiesto, tramite degli amici, anche se lo incontrai in un’occasione precedente, ci fu un saluto, e lì gli offrii di fare le musiche, cosa che lui non escluse, poi improvvisamente morì, io non sapevo fosse molto malato. Lui è un grande artista, che con la più grande tragedia della morte non ci potrà più dare nulla, oltre a quello che ci ha dato, però abbiamo scoperto come la sua musica fosse molto giusta per questo film.
Una volta che un film è pronto, di solito l’autore lo destina al pubblico e procede verso il successivo: nel caso di Marx può aspettare, è una storia famigliare che ‘lascia andare’ o lo sente come una sorta di documento personale?
Come opera autonoma è sano, naturale, lasciarlo andare, anche perché forse ci sarà qualcuno (del pubblico) che risponderà emotivamente: è ovvio che anche nei miei prossimi progetti in qualche maniera rientrerà (il tema).
Marco Bellocchio, in occasione della cerimonia di chiusura del 74° Festival di Cannes sarà onorato con una Palma d'onore: "Il film e il premio sono due cose unite ma anche molto separate, unite perché il direttore Frémaux è stato estremamente generoso, ha ammirato il film, però io palpito non tanto per la premiazione, per me anche un po' faticosa, non è cosa nelle mie corde, ma per la proiezione con il pubblico, tra cui molti stranieri: è un'esperienza a cui partecipo sentendomi anche più giovane, perché è inimmaginabile portare a Cannes un film così piccolo, nato per noi, per cui ringrazio Rai Cinema, che ci fa uscire in un buon numero di sale. Della Palma sono felice ma non lo considero un premio che mi ripaga, a Cannes ho già avuto grandi soddisfazioni: ricorderò senz'altro Michel Piccoli che ottenne la Palma per Salto nel vuoto, un premio fortemente sostenuto da un critico molto di Destra, Gianluigi Rondi, che però fu molto leale".
Marx può aspettare è una produzione Kavac Film, IBC Movie, Tenderstories con Rai Cinema, in collaborazione con Fondazione Cineteca Bologna: distribuzione 01 Distribution dal 15 luglio 2021.
Nicole Bianchi. Fonte: news.cinecitta.com
Marco Bellocchio
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